Omelia Notte di Pasqua 2020

Omelia Notte di Pasqua 2020

Cari fratelli e sorelle,
siamo alla Veglia pasquale, madre di tutte le veglie, momento culminante di tutto il Triduo Pasquale e di tutto l’anno liturgico. Non vi nascondo che in questi giorni, mentre celebravo la messa, guardando la chiesa vuota mi è scesa qualche lacrima, lacrime di sofferenza per la situazione dolorosa che stiamo vivendo, lacrime per non poter celebrare con voi. Ho visto, però, che sull’altare non c’erano solo le mie, ma anche le vostre lacrime di sofferenza, di paura, di ansia, di incertezza, a causa di questo momento. Ma proprio dall’altare, che è Cristo, scaturisce una sorgente d’amore, di perdono, di consolazione e di pace per tutti noi. Questa notte abbiamo cantato: “O immensità del tuo amore per noi! O inestimabile segno di bontà: per riscattare lo schiavo, hai sacrificato il tuo figlio”.
Forse il nostro stato d’animo è simile a quello delle donne che vanno al sepolcro, tristi, deluse, sconfitte, vanno per onorare il corpo di Gesù, un rituale di morte. Sono preoccupate perché c’è un macigno da far rotolare. In questo periodo a causa del virus non è possibile piangere i nostri morti. Nessun rito, nemmeno un ultimo saluto o meglio un “arrivederci”, ma solo desolazione e morte in tanti obitori, corpi ammassati in attesa di essere seppelliti, una fossa comune a New York per i morti di coronavirus. Allora, potremmo chiederci: che senso ha celebrare la Pasqua? Ha senso perché Pasqua significa Passaggio: Cristo ha vinto la morte e regna vittorioso, è la vita che vince la morte, quindi noi non siamo sconfitti, ma vincitori. Le donne vanno a cercare il corpo di Gesù e trovano le spoglie della morte. “L’angelo disse alle donne: voi non abbiate paura, il crocifisso non è qui, è risorto”. Cristo è veramente risorto alleluia. Queste parole dobbiamo sentirle nostre in questo momento difficile: non dobbiamo avere paura perché Cristo non ci abbandona, è sempre con noi, è il Risorto, il Vivente. Possiamo affrontare ogni cosa, persino questo momento difficile. Dinanzi a tale annuncio, lasciamo battere il cuore, pulsare sangue nelle vene, perché siamo stati liberati dalla schiavitù della morte, anche noi con Cristo siamo vittoriosi.
Penso che la Pasqua ci ponga un interrogativo profondo: come vuoi vivere la tua vita? Da morto o da risorto? Vogliamo vivere nella paura, nello sconforto, nella delusione, lasciarci prendere dall’ansia e chiuderci nel nostro egoismo? Vogliamo continuare a vivere una vita egoista, nella logica utilitarista, continuare a chiudere gli occhi di fronte a ingiustizie, soprusi e conflitti? Possiamo continuare ad essere sordi al grido dei poveri e del nostro pianeta gravemente malato.
Oppure, vogliamo vivere da risorti? Vivere da risorti significa essere inossidabili: affrontare le difficoltà, le prove, la sofferenza, la malattia e anche il Covid-19. Vivere da risorti significa donare agli altri quello che abbiamo visto e sperimentato: l’Amore vince sempre. Allora, portiamo agli altri coraggio, speranza, consolazione. Vivere da risorti è quello che hanno fatto e fanno i tanti medici e operatori sanitari in questi giorni, senza dimenticare i confratelli sacerdoti, che in prima linea danno la vita per amore e servizio. Possiamo vivere da risorti anche affrontando la tempesta del coronavirus, aprendo nuovi spazi di comunione, di fraternità, di solidarietà e di accoglienza. Il dolore di questi giorni, che ognuno vive sulla sua pelle, può essere un’occasione per una coscienza più matura, responsabile ed operosa nei confronti delle sofferenze di tutti i fratelli. Colgo l’occasione per ringraziare quanti, in questo momento difficile, hanno condiviso magari quel poco che hanno con i fratelli più bisognosi attraverso vari modi, come il carrello della spesa solidale presente negli alimentari. Allora, l’augurio di Pasqua che rivolgo a tutti: viviamo da risorti perché siamo risorti con Cristo.
Buona Pasqua!

Omelia Venerdì Santo – 10 aprile 2020

Omelia Venerdì Santo –  10 aprile 2020

Non “fuori” ma “dentro”: la logica del dramma
Fratelli e sorelle carissimi,
con l’azione liturgica di questo Venerdì Santo siamo posti dinanzi al “dramma della Croce”. Il termine dramma ha origine nel mondo greco ed indica un componimento scritto destinato alla rappresentazione scenica, una narrazione che prende vita. Il dramma si colloca a metà strada tra il tragico e il comico, accomunato con essi dal tentativo di esorcizzare la vita, di reagire dinanzi a ciò che la sconvolge, nel bene e nel male. Dramma, nella sua etimologia, significa azione, storia e risponde all’innato bisogno dell’uomo di essere attore e protagonista della propria vita.
Pensiamoci: dinanzi ad una notizia piacevole o spiacevole (la nascita di un figlio o la morte di una persona cara), laddove le parole sembrano non bastare per esprimersi e dar senso, l’uomo reagisce “agendo”: fa salti di gioia o tira pugni di rabbia, abbraccia o fugge gli abbracci. In una parola “drammatizza” la vita, la mette in scena dandole una personale interpretazione, si appropria in modo unico della sua storia.
La parola dramma è poi passata ad indicare anche una vicenda triste, dolorosa, difficile da affrontare e dall’esito incerto. Spesso esclamiamo: “È un vero dramma!” per riferirci ad una situazione che ci sfugge di mano e che appare ingestibile.
In questo Venerdì Santo 2020, forse più che mai, siamo dinanzi ad una situazione doppiamente drammatica. Come ogni anno, infatti, siamo condotti dalla liturgia al cuore del dramma della Passione. Diversamente da ogni anno, tuttavia, siamo costretti dalla vita a farci carico di un altro dramma, quello del Covid-19 e del veleno di ansia e di morte che sta, ormai da mesi, infettando il nostro mondo. Dramma della Croce e dramma della vita si intrecciano: l’uno, quello della vita, invera e attualizza l’altro, quello della croce. L’altro, quello della croce, illumina e orienta l’uno, quello della vita.
Dinanzi al dramma, cari fratelli e sorelle, non si può rimanere indifferenti: o si sceglie di esserne attori oppure si sceglie di esserne spettatori. O ci si fa carico della drammatizzazione e se ne fornisce una propria e personale interpretazione o ci si limita ad accogliere quella altrui.
Detto in altri termini, forse più chiari: rispetto al dramma o si sta “dentro” o si resta “fuori”!
La Parola di Dio proclamata in questa azione liturgica ci presenta un Gesù che sta pienamente dentro al dramma della Sua passione. Non lo evita ma lo sceglie: “Il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?” (Gv 18,11). Non lo sottovaluta ma ne è consapevole: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo” (Gv 18,37). Non vi assiste ma vi prende parte: “Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori… è stato trafitto, schiacciato” (Is 52, 4-5).
Di fronte al dramma dell’ “uomo dei dolori che ben conosce il patire” (Is 53, 3) le reazioni sono diverse: molti dei discepoli fuggono; uno, Pietro, segue ma si tiene fuori rinnegando; un altro, Giovanni, il discepolo amato, partecipa osservando e dando testimonianza, altre ancora, la Vergine Addolorata e le altre due Marie, semplicemente “stanno”, lasciandosi coinvolgere nell’ultimo spirare del Crocifisso che tuttavia è anche il primo respirare della Chiesa.
Il dramma del Crocifisso si ripresenta nei drammi che l’uomo vive, anche in quello del momento presente. Di fronte ad esso, noi come intendiamo reagire? Come allora ai piedi della Croce, così ora ai piedi di questa croce, quella del coronavirus, o reagiamo agendo o desistiamo arrendendoci! Come nel dramma di quella Passione che dà salvezza, così nel dramma di questa passione la vera questione non è “venirne fuori” ma “starci dentro”. Anzi, solo standoci dentro ne verremo fuori! Solo accettando il dramma della morte Cristo ne è venuto fuori ed è stato risuscitato dal Padre e così ci ha tirati fuori, promettendoci che dove è Lui, lì saremo anche noi. Solo vivendo il momento presente potremo non soltanto dire ma percepire come profondamente vero che “#andràtuttobene”. Il dramma si supera vivendolo non ignorandolo, accettando che possa ferirci e farci male non anestetizzandolo, credendo fermamente non che “tutto tornerà come prima” ma che “tutto sarà meglio di prima”, che cioè il meglio non sta in ciò che abbiamo perduto ma che il meglio deve ancora venire!
Cari fratelli e sorelle, la fede ci insegna, e questi giorni di Triduo Pasquale ce lo ricordano in modo potente, che non esiste un “tempo dis-graziato”, cioè privo della grazia di Dio. Non c’è tempo senza Dio e non c’è tempo, anche il peggiore ed il più difficile, che non possa rivelarsi occasione di grazia, opportunità per riappropriarsi della propria vita e della propria storia, di ciò che è essenziale e davvero conta, possibilità per prendere parte al grande e divino dramma che è la storia della salvezza.
La logica del dramma della Croce di Cristo diventi allora la logica di questo dramma, la logica di ogni dramma che l’uomo vive: non “fuori” ma “dentro”.
Amen.

Omelia Giovedì Santo

Omelia Giovedì Santo

Omelia Giovedì Santo 2020
Carissimi fratelli e sorelle,
con la celebrazione di questa sera entriamo nel triduo pasquale, in questi tre giorni siamo invitati a tuffarci nell’amore di Dio. È vero, viviamo un momento molto difficile e di grande sofferenza, anche per non poter vivere appieno il cuore della nostra fede: l’evento che ha cambiato il mondo. Dobbiamo restare a casa e allora facciamo delle nostre case, delle nostre famiglie, il cenacolo, Gesù è presente, ci parla cuore a cuore e certamente darà al nostro cuore sofferente, angosciato, pace e speranza.
Questa sera, Giovedì Santo, viene dato alla chiesa e ad ognuno di noi un triplice dono: l’Eucaristia, il sacerdozio, il comandamento nuovo.
Permettetemi di iniziare dal dono del sacerdozio, che può essere considerato insieme all’Eucaristia un parto gemellare e scusatemi se, questa sera, non parlo della grandezza del dono ma della povertà di chi lo ha ricevuto. La mia povertà, la mia fragilità, in questi giorni sento la vostra mancanza, vivo nel dolore di non poter servire appieno la mia comunità, non perché non posso “fare” alcune cose, ma perché sento l’ansia che l’amore di Dio non possa raggiungere proprio tutti in questo periodo difficile. Questo distacco forzato mi richiama alla mente ciò che, a volte, succede tra marito e moglie, quando uno dei due è costretto per vari motivi a vivere lontano dalla famiglia. Per esempio, quando alcuni nostri papà sono costretti ad andare lontano per il lavoro. Ebbene, quanta sofferenza, tanto per chi parte che per chi resta. Eppure non manca giorno in cui, se pur distanti, gli sposi si sentono, si parlano, si scambiano dolci parole e magari qualche lacrima solca il loro viso. Ma nel loro cuore c’è la speranza che presto questa quarantena finirà, si riabbracceranno ancora, staranno di nuovo insieme nella stessa casa con i figli. Questo fanno i sacerdoti “al tempo del coronavirus”: celebrano l’Eucaristia ogni giorno, che è il modo migliore per sentirsi in comunione con le persone amate, cercano di non far mancare ai propri figli, soprattutto quelli più bisognosi, il pane, una parola di consolazione e di speranza: “abbi fede, Cristo ha vinto la morte, passerà questo momento difficile”. Sì, i sacerdoti soffrono perché in questi giorni le loro mani tremanti e fragili non possono far nascere e rinascere, accarezzare e incoraggiare, stringere e dare forza, spezzare e consacrare per tutti i figli.
Il secondo dono che riceviamo questa sera è l’istituzione dell’Eucaristia. Nell’ultima Cena, prefigurazione di cosa sarebbe avvenuto sulla croce, Gesù spezza il pane. Come ci narra San Paolo nella seconda lettura: “Il Signore Gesù nella notte in cui veniva tradito, prese il pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: questo è il mio corpo che è per voi…questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue”. Memoriale dolcissimo: il tuo corpo e il tuo sangue Gesù per la mia vita, la tua morte per la mia salvezza. Presentiamo al Signore, questa sera, la sofferenza di non poter partecipare a messa, di non poter ricevere la comunione, forse tante volte Tu hai desiderato ardentemente fare pasqua con noi, ma noi eravamo impegnati, distratti, lontani. Sì, questa mancanza ci fa riflettere…la comunione spirituale non è la stressa cosa, abbiamo bisogno di te, dell’eucaristia, presenza sacramentale di Gesù, momento più alto di comunione. Pane che ci nutre e ci dà forza, farmaco di immortalità.
Il terzo dono: il comandamento dell’amore, il testamento dell’amore che diventa un mandato per tutti noi. Gesù compie questo gesto scandaloso: si spoglia delle sue vesti e lava i piedi ai suoi discepoli. Questa sera non faremo questo segno, ma forse possiamo vivere davvero il suo significato: vivere la nostra vita nella comunione e nel servizio. Allora saremo capaci di piegarci sui piedi dell’umanità dolorante, ferita, maleodorante.
Speriamo e preghiamo che presto tutti possiamo tornare a “casa”, per vivere e celebrare L’Amore e allora, sarà il bacio e l’abbraccio più bello.
Amen.

Domenica delle Palme 5 aprile 2020 “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”

Domenica delle Palme 5 aprile 2020 “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”

In questa Domenica delle Palme, inizio di una Settimana Santa particolare, giunga la benedizione su ognuno di voi, sulle vostre famiglie e su tutte le palme che avete nelle vostre case..Don Antonio e Don Nino

~~~Omelia 5 aprile 2020, Domenica delle Palme ~~~

Fratelli e sorelle carissimi,

ha inizio oggi, con la Domenica delle Palme, quella che la tradizione della Chiesa chiama la “Grande settimana”. Una “Settimana Santa” che resta tale anche se quest’anno è vissuta in modo “inedito”! Ogni volta che celebriamo i misteri della nostra salvezza non ci limitiamo ad un nostalgico ricordo del passato ma siamo condotti all’interno di essi. Quei misteri vengono attualizzati, riprendono vita, si innestano nella nostra vita. Nella liturgia passato, presente e futuro si fondono in un’unica dimensione: l’oggi!

Oggi il Signore Gesù entra trionfante nella Gerusalemme del nostro tempo e ne percorre le strade. Oggi, anche oggi e ancora oggi, chiede di entrare nelle nostre storie. Ad accoglierlo non folle ma strade deserte; non uomini osannanti ma uomini rinchiusi in casa dalla paura; non segni di festa ma segni di speranza che questa situazione di emergenza presto finisca.

Eppure Gesù entra! Continua a vivere la sua passione in questo particolare frangente storico facendo sua la passione di tanti che lottano e muoiono per via di questo microscopico ma letale nemico!

Gesù, dalla croce, pochi istanti prima di rendere lo spirito, porge al Padre una domanda che sa di supplica: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?

Non è forse il grido di tanti di noi oggi? Non è forse la protesta che sale dai tanti ospedali, dai tanti letti di dolore e di lutto, dalle tante strade diventate cimiteri itineranti? Sì, fratelli e sorelle! È lo stesso ed identico grido! Il grido dell’umanità che sperimenta la sua pochezza, che riconosce che da sola non è in grado di farcela, che attende una risposta concreta dal cielo!

Il grido di Gesù non trova risposta nel brano evangelico che abbiamo ascoltato. Il Figlio domanda ma il Padre non risponde, anzi, tace! Sappiamo per fede che il Dio silente della Passione non è il Dio assente ma si rivelerà come il Dio presente e rispondente nel mattino di Pasqua. Lì, dinanzi ad un sepolcro vuoto, si potrà udire la chiara e definitiva risposta di Dio.

Perché ci hai abbandonato?”: la domanda è più che lecita! Ma la risposta non è immediatamente data o per lo meno sembra non bastarci, per il momento. Che fare? Smettere di domandare ed arrendersi all’evidenza della situazione che stiamo vivendo? No! Siamo chiamati ad abitare questa domanda, a farla decantare, a vivere cioè in attesa che la risposta arrivi.

Che Cristo sia risorto lo sappiamo! Che la promessa di risurrezione sia la risposta di Dio ad ogni umano morire lo crediamo! Eppure desideriamo una risposta più personale: desideriamo uno spiraglio di risurrezione qui ed ora, desideriamo che questo sepolcro dell’isolamento si apra e con esso la vita torni a rifiorire.

Abitare le domande vuol dire pazientare! Passione e pazienza hanno la stessa radice! Forse il Signore ci sta offrendo come itinerario per questa Settimana Santa la “passione della pazienza”: pazientare è sperare, è guardare avanti, è credere che Dio risponderà alle nostre domande non in un domani indefinito e lontano ma nell’oggi dei piccoli gesti, delle semplici parole, dello stare insieme nelle nostre case, del riscoprirsi famiglia e piccola Chiesa domestica. Pazientare è ben più che disperare, è ben più che rassegnare le proprie dimissioni dinanzi alle difficoltà della vita, è ben più che poltrire in attesa che tutto passi e che tutto ritorni come prima. Pazientare è orientare il presente ad una promessa di bene e di vita: così Dio risponde alle domande dell’uomo! Buona settimana di passione, buon tempo di pazienza! Amen!

Lettera dell’Arcivescovo e sussidio per vivere in famiglia il Triduo Pasquale in tempo di Coronavirus

Lettera dell’Arcivescovo e sussidio per vivere in famiglia il Triduo Pasquale in tempo di Coronavirus

Buongiorno carissimi,

vi inoltriamo il sussidio preparato dalla nostra Arcidiocesi per vivere e celebrare in famiglia il Triduo Pasquale, uno schema semplice per riscoprirsi Chiesa domestica e per celebrare, nel calore degli affetti familiari, il Mistero Pasquale, centro e fondamento della nostra fede.

Non sciupiamo questa occasione di grazia per gustare la bellezza della preghiera fatta in famiglia e per fare Pasqua.

Condividiamolo con i nostri contatti e invitiamo tutti a questa celebrazione domestica della Pasqua.

Vi abbracciamo (almeno qui possiamo) e vi benediciamo.

Don Antonio e Don Nino

PREMI QUI PER SCARICARE IL SUSSIDIO QUI